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La decrescita come via d’uscita

In questi ultimi anni caratterizzati dalla crisi economica globale, il pensiero dominante non ha fatto altro che propinare ricette basate sull’austerità, la privatizzazione, lo smantellamento dello stato sociale e via dicendo, con la presunzione di riuscire in questo modo a rilanciare la crescita. Eppure è evidente che perseguire questa logica a ogni costo non porti i benefici auspicati, ma al contrario produca degli effetti negativi a tutti i livelli. A dimostrarlo sono diversi studiosi, economisti e sociologi, ma anche persone comuni, le quali sono convinte che si possa avere prosperità sociale anche senza crescita economica. È questa l’idea della decrescita approdata anche in Ticino. 

 

Per dare continuità alla rassegna “L’economia non violenta e la decrescita felice”, lo scorso mese di agosto si è svolto ad Ambrì un seminario organizzato dal Centro per la nonviolenza della Svizzera italiana (CNSI). Tra i relatori vi era Maurizio Pallante, fondatore e coordinatore nazionale del Movimento per la decrescita felice italiano, il quale ha coordinato una riflessione sul sistema di valori appartenente alle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita. Secondo la sua visione «la decrescita non è soltanto una critica ragionata e ragionevole alle assurdità di un’economia fondata sulla crescita della produzione di merci, ma si caratterizza come un’alternativa radicale al suo sistema di valori. Si tratta di una rivoluzione culturale che non accetta la riduzione della qualità alla quantità, ma fa prevalere le valutazioni qualitative sulle misurazioni quantitative».

La felicità non dipende dal PIL

Se partiamo dal presupposto che il vero benessere non dipende dall’incremento della produzione e del consumo di merci, come neppure dalla soddisfazione dei bisogni indotti, iniziamo a entrare nell’ottica della decrescita. Il fatto che più si consuma e più si produce contribuisca a far crescere l’economia, non comporta per forza un miglioramento della qualità di vita. Secondo i sostenitori di questa nuova via, diventa “bene-stante” chi sceglie di comprare solo ciò che gli serve e di autoprodurre beni utili piuttosto che merci inutili, senza sprecare risorse ed energia. Ciò significa che il benessere, inteso come lo star bene e l’essere felici, non dipende dal Prodotto interno lordo (PIL), anzi sembrerebbe valere il contrario. Se mi ammalo e consumo più medicamenti, contribuisco a far crescere il PIL ma non per questo sto meglio; se produco e consumo del cibo che poi butterò, faccio crescere il PIL, ma al tempo stesso contribuisco ad aumentare i rifiuti; se spreco benzina mentre sono incolonnato faccio aumentare il PIL, ma la mia qualità di vita peggiora. La decrescita prende così le distanze da un «sistema economico finalizzato al più anche quando è peggio» e ipotizza una vita migliore e più semplice che valorizzi i beni in comune invece del profitto privato, i doni al posto degli sprechi. Una società in grado di privilegiare la collaborazione invece della competizione, in cui le relazioni affettive prevalgano sul possesso di cose. Si tratta in fin dei conti di una concezione del mondo diversa, che alcuni definiscono come una tendenza irreversibile.

Come detto all’inizio, i fautori della decrescita ritengono che oggi non si uscirà dalla crisi rilanciando la crescita, visto che sono proprio le misure tradizionali di politica economica, finalizzate a questo scopo, che impediscono di risolvere i problemi.

La crescita è la causa della crisi

In termini spiccioli, la logica sottintesa alla crescita fa aumentare l’offerta di merci attraverso un minor impiego di manodopera e lo sviluppo di nuove tecnologie, in questo modo la domanda diminuisce poiché sempre meno persone sono in grado di garantirsi un lavoro e uno stipendio grazie al quale acquistare nuove merci e servizi. E allora per colmare questo divario e aumentare la domanda si ricorre ai debiti. Insomma, come afferma il docente di Economia ecologica Giorgos Kallis nel suo nuovo libro, Degrowth, a Vocabulary for a New Era, «ci siamo indebitati per crescere e ora siamo obbligati a crescere per sdebitarci». È partendo da queste premesse che Maurizio Pallante individua nella decrescita selettiva del PIL l’unica maniera per uscire dalla crisi: è necessario investire nella riduzione degli sprechi senza però aumentare i debiti.

Come realizzare la decrescita

Concretamente la decrescita si attua nel momento in cui la quantità delle cose autoprodotte aumenta e quando queste stesse vengono scambiate sotto forma di dono. «Stiamo parlando di un aspetto fondamentale della decrescita, poiché nel giro delle ultime due o tre generazioni nei Paesi occidentali si sono perse moltissime capacità. Siamo di fronte a un impoverimento culturale degli esseri umani: quasi nessuno sa fare più niente, e chi non è in grado di far niente deve comprare tutto, contribuendo così alla crescita del PIL in maggior misura di chi invece sa fare delle cose. Per realizzare la decrescita è quindi molto importante riscoprire «le capacità di fare delle cose con le mani sotto la guida dell’intelligenza progettuale». Un secondo elemento importante è l’aumento della produzione e dell’uso di beni che non passano attraverso la mercificazione. «Se una persona recupera il saper fare e la capacità di instaurare dei rapporti basati non sul denaro ma sulla collaborazione allora cambia il suo stile di vita», secondo Maurizio Pallante sarebbe proprio questa l’idea di decrescita che dovrebbe guidare le nostre scelte.

* Paola Delcò è giornalista indipendente.

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