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States, il vento sta cambiando

Negli Stati Uniti, far entrare il sindacato nelle grandi aziende è quasi un miracolo. Che a volte accade, come dimostrano i recenti casi di Amazon e Starbucks, i quali fanno ben sperare.

© Nour Eliz Jabbes

Un anno fa, a Bessemer, in Alabama, i dipendenti di Amazon si erano espressi per creare un sindacato interno. Dopo un’aspra battaglia marcata dalle irregolarità dell’azienda di Bezos, il No l’aveva spuntata. Ma per Christy Hoffman, segretaria generale di Uni Global Union, un tabù era stato sfatato: «Altre elezioni sindacali possono seguire e una delle prossime volte potremmo vincere». E così è stato! Lo scorso primo aprile il centro di smistamento di Staten Island è diventato il primo stabilimento Amazon negli Usa a essere sindacalizzato. Una vittoria frutto della consapevolezza che il sistema che garantisce ad Amazon profitti indecenti grazie allo sfruttamento del personale va fermato. Una vittoria frutto anche del coraggio: esporsi davanti al padrone non è mai scontato, farlo negli Stati Uniti quando il padrone si chiama Jeff Bezos lo è ancora di meno. Intendiamoci: la lotta per arrivare a negoziare un contratto di lavoro decente è solo l’inizio. Ma a Staten Island si è fatta la storia, come dichiarato da Angelica Maldonado, presidente del Comitato dei lavoratori del sindacato di Amazon: «Ne abbiamo affrontate tante per contribuire a realizzare un cambiamento. Per noi attivisti significa mancanza di sonno, mancanza di tempo a casa. E lo abbiamo fatto oltre a lavorare per Amazon. Quindi il fatto che abbiamo vinto oggi sembra irreale, mi sento come se fossi in un sogno. Abbiamo fatto la storia, vero?».

Union Avoidance, una vera e propria industria

Già, la storia. Negli Usa i criteri per la sindacalizzazione sono molto difficili. Per legge, se vuoi avere un sindacato per le negoziazioni collettive, devi avere la prova che la maggioranza degli impiegati lo vuole. Quindi si deve organizzare un’elezione su domanda di almeno il 30% del personale. Il che è molto complesso. Amazon, da sempre, porta avanti una politica antisindacale. Per il colosso è una questione di principio: vogliono semplicemente mantenere il controllo assoluto. Lo si è visto proprio nel caso di Bessemer. Amazon ha dapprima fatto di tutto per evitare che il 30% chiedesse la votazione. Non essendoci riuscita ha giocato sporco durante la campagna elettorale: oltre a diffondere manifesti ovunque e a mandare sms quotidiani per votare No al sindacato, l’azienda ha ingaggiato un’azienda specializzata nel “mantenere un luogo di lavoro libero dai sindacati”. L’Union Avoidance (letteralmente, l’evitamento dei sindacati) è una vera e propria industria negli States, con aziende disposte a spendere centinaia di milioni di dollari per convincere i lavoratori a non formare sindacati. Secondo un rapporto, l’uso di queste tattiche è stato uno dei motivi principali della maggiore difficoltà per organizzare i sindacati, contribuendo al declino della densità sindacale del settore privato, passata dal 35,7% nel 1953 a solo il 6,2% di oggi.

La via è aperta, ma sarà piuttosto impervia

Le difficoltà rimangono e i colossi non esitano a mostrare i muscoli e a giocare sporco. Di recente, i lavoratori di un centro Amazon di New York hanno votato contro l’arrivo del sindacato nel loro sito. Anche in questo caso sono state denunciate intimidazioni. A Bessemer, il voto dello scorso anno era stato considerato nullo dai funzionari federali che avevano dichiarato che la multinazionale aveva contaminato il processo elettorale. Si è rivotato da poco: ha vinto ancora il No, ma lo scarto si è affievolito, nonostante le continue macchinazioni del colosso giallo. I sindacati fanno paura. Amazon non è il solo gruppo a essere confrontato con il desiderio di chi lavora a una protezione sindacale. A dicembre, i dipendenti di due caffetterie Starbucks a Buffalo e New York hanno votato per formare un sindacato. Da allora più di 180 filiali della catena si dovranno esprimere al riguardo. E ora è il turno di Apple. La via è ormai aperta, ma occhio ai contrattacchi.


Federico Franchini, l'articolo è apparso sulla syndicom rivista n. 29

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