Articolo

La realtà vista dai postini

Per sei mesi, lo scrittore Angelo Ferracuti ha seguito il lavoro quotidiano di alcuni portalettere in diversi luoghi d’Italia. Da queste osservazioni è nato il libro Andare Camminare Lavorare, ritratto di un paese attraverso la lente di osservazione del mondo del lavoro. Un lavoro particolare come quello dei postini.

 

Per un lungo periodo della propria vita, lo scrittore Angelo Ferracuti è stato portalettere. Non a caso, il suo ultimo libro s’intitola “Andare Camminare Lavorare – L’Italia raccontata dai portalettere” (Feltrinelli, 352 pagine, 18 euro). Ha viaggiato, per scrivere questo libro, durante sei mesi, incontrando, in molti luoghi d’Italia, una o un portalettere, affiancandola/o nel suo lavoro e cercando di utilizzare il filtro che si costruiva per conoscere il luogo dove si era recato. Il risultato è una raccolta di vedute che non sono né geografiche, né umane, né sentimentali, né storiche o sociologiche, ma sono un racconto che spesso utilizza come metro narrativo e come cartina di tornasole l’evocazione di uno scrittore che ha vissuto o raccontato quel luogo: Biamonti per Ventimiglia, Bianciardi per Milano, Mastronardi per Vigevano, Milani per Trepalle, Alvaro per San Luca, e così via. Ferracuti utilizza anche la macchina fotografica inserendo nel testo fotografie sbiadite e difficilmente leggibili, un po’ come aveva fatto André Breton per risparmiarsi la descrizione testuale dei luoghi. Il suo obiettivo è di utilizzare l’esperienza del lavoro (il lavoro di portalettere) per raccontare una realtà: i luoghi prescelti.

Partirei dal titolo Andare Camminare Lavorare e dalla citazione da Piero Ciampi con l’iterazione del “lavorare” e poi la dedica alla postina morta sul lavoro. Perché?

Angelo Ferracuti: il titolo funzionava da un punto di vista onomatopeico, musicale, ritmico. È anche il passo del reporter oltre che quello del portalettere, un modo di raccontare ad altezza d’uomo e da flâneur, senza l’ossessione di spiegare. Per Ciampi era un nonsense per sbeffeggiare l’Italia dell’austerity, invece, un refrain sarcastico, un po’ fatto di humor nero come lui. La dedica l’ho pensata perché la morte di quella ragazza mi ha colpito molto. Morire lavorando è una bestemmia, ma anche perché ho raccontato tanto il mondo del lavoro e i morti sul lavoro, di cui l’Italia detiene il primato europeo, storie che m’indignano sempre parecchio.

Come ha individuato i postini e i luoghi?

Diciamo che la divisione Poste Comunicazione e Logistica, quella che organizza il recapito, mi ha supportato moltissimo in tutte le regioni, dove sono stato accolto dai colleghi sempre con molto affetto. L’azienda mi ha messo a disposizione risorse, mezzi e, soprattutto, capitale umano. Diciamo che io proponevo dei luoghi, loro ne aggiungevano altri, e alla fine si faceva una sintesi. È ovvio che ho cercato di andare dove l’immaginario dell’Italia era più forte, dove ero magari già stato o dove non ero mai stato e credevo di trovare storie più adatte per raccontare un’idea del Paese nelle sue tipicità, eccentricità, anche storture. Perché il libro apparentemente può sembrare ingenuo, ma ha tanti piani narrativi che concorrono sommandosi a creare un insieme complesso.

Alla fine lei dice che alcune esperienze non sono confluite in un racconto e quindi nel testo del libro. Perché? Quali elementi sono necessari per costruire un racconto? Mi sembra che in un caso lei dica che il suo informatore aveva una personalità ingombrante e che non voleva che prendesse troppo spazio? Qual è il ruolo del postino nel suo libro?

Il portalettere è un gancio, un traghettatore e una memoria, già di per sé una storia. Quando le sue capacità narrative, di immaginazione e umanità sono forti si può dire che la base del racconto c’è. Non deve prevalere però sul contesto, deve stare dentro il tessuto, perché il libro racconta l’Italia oggi, o le tante Italie, e non è un libro sulla vita dei portalettere, che pure marginalmente traspare. Alcuni di loro erano timidi, e questo si è verificato un problema, altri erano loquaci ma i luoghi poco significativi. Nei reportage l’elemento umano, il rapporto di empatia, sono sempre fondamentali, perché è la narrazione più soggettiva in assoluto, dove molti elementi concorrono miracolosamente. Questo è il suo fascino ma anche la sua dannazione. Con un po’ di mestiere avrei potuto raccontare anche le storie più ostiche, ma il tempo a disposizione, poco più di cinque mesi, è stato davvero avaro, e poi il risultato sarebbe stato notevolmente più basso.

Qual è il ruolo della fotografia nel libro?

Da sempre, sono molto attratto dalla fotografia e dai fotografi. Poi vengo da Fermo, una città fotocentrica, dove è vissuto e ho conosciuto Luigi Crocenzi, l’impaginatore del Politecnico e l’illustratore di “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini. Nei miei libri spesso ci sono inserti fotografici e ho collaborato per anni con Mario Dondero, che mi ha trasmesso la passione per il reportage. Quelle che stanno nel libro sono però foto mie, quelle di un dilettante. Credo che le foto diano al testo qualcosa di ulteriore a livello di immaginario, sono una leva che aumenta l’effetto di realtà. Come a dire, ecco, lì ci sono stato, è vero. Non documento didascalico, quindi, ma linguaggio nel linguaggio.

Il mestiere di portalettere è cambiato, secondo lei? Ha una funzione sociale diversa?

Il mestiere è cambiato come è cambiata l’Italia, oggi il portalettere reca con sé anche strumenti tecnologici come il palmare, a volte è un lavoratore precario, oppure è un ricorsista che vive lontano da casa, un part-time, ma quello che sorprende è che la sua figura, nonostante tutto, non ha perso valore sociale. La gente lo aspetta, è un punto di riferimento che scandisce il tempo della quotidianità. Si può anche considerare uno degli ultimi lavoratori della società comunitaria, l’ultimo “Grande fratello” naturale, il massimo conoscitore corporale dei luoghi in un mondo che sempre di più è artificiale. E poi si adatta antropologicamente ai luoghi, s’inventa una lingua per comunicare, è dentro la realtà. Questa per me è stata una scoperta sorprendente.

* Vito Calabretta è giornalista

freelance.

Rimani aggiornato

In modo personale, veloce e diretto

Vuoi sapere per cosa ci impegniamo? Abbonati alla nostra newsletter! I nostri segretari e le nostre segretarie regionali saranno felici di rispondere alle tue richieste personali.

syndicom nei tuoi paraggi

Nei segretariati regionali troverai sostegno e una consulenza competente

Aderire adesso