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Native Advertising vs. Fake News

In un mondo in cui i giornalisti vengono superati dalle fake news, raccontare aziende, prodotti e persone in modo onesto può diventare la chiave per ritornare a fare buon giornalismo e aiutare l’economia a crescere. È questo uno dei temi trattati da Patrizia Pfennigger e Pasquale Diaferia nell'ambito del primo di quattro incontri sul giornalismo organizzati da Syndicom allo spazio Ado di Lugano-Besso.

di Federico Franchini

Un incontro davvero molto stimolante e ricco di spunti (oltre che condito da un appetitoso aperitivo). La relazione ha suscitato, però, qualche perplessità. Non tanto per la sua brillante esposizione e per i suoi numerosi spunti di riflessioni. Ma piuttosto per gli scenari inquietanti legati al futuro della professione di giornalista. Una professione già fortemente messa alla prova e che, anche alle latitudini della Svizzera italiana, non sta certo vivendo un momento facile, tra fake news, violazione delle regole deontologiche e servilismo a vantaggio dei più forti.  
In questo contesto, per i relatori, occorre valutare in maniera positiva il Native advertising (pubblicità nativa), ovvero una forma di comunicazione sempre più in voga e che è una sorta di miscela – a parere di chi scrive non miscelabile –  tra giornalismo e pubblicità. Riassumendo, si tratta di una pubblicità che, al contrario del metodo tradizionale che distrae il lettore dal contenuto per comunicare un messaggio, ibrida i contenuti e la pubblicità stessa all'interno del contesto editoriale in cui vengono posizionati. In sostanza, un'azienda che vuole che si parli di lei (l'esempio citato riguarda il Gruppo Generali) paga dei giornalisti per scrivere degli articoli tematici che vengono inseriti in un giornale, cartaceo e online. Questo in modo coerente con il contenuto della pagina, con il suo design e con le caratteristiche della piattaforma su cui sono ospitati. In questo modo l'utente li percepisce come parte del contenuto editoriale. Ma in realtà è una pubblicità scritta da giornalisti e inserita nei contenuti giornalistici prodotti dagli editori. 
La regola vuole che venga indicato chiaramente che l'"articolo" in questione è un native advertising e chi è quindi l'inserzionista che 'sponsorizza' tale contenuto. Per Pasquale Diaferia, autore di famose pubblicità oltre che apprezzato giornalista, questo tipo di comunicazione "se fatto bene" è quindi più onesto che tante altre. Più onesto delle censure, delle bufale, dei vecchi pubbliredazionali. Per chi scrive questo modo di fare resta una sorta di marchetta che scalfisce quella che dovrebbe essere la purezza del mestiere. E che pone degli interrogativi sui limiti: quali sono i paletti, finanziari e di contenuti, oltre i quali la credibilità giornalistica cadrebbe nel baratro? 
Una questione che, assieme ad altre, è stata ad ogni modo piacevolmente dibattuta durante l''aperitivo. Nella sua prima parte, la relazione si è concentrata su altri aspetti della comunicazione e delle fake news. Oltre a diversi esempi di campagne mediatiche 
 
Patrizia Pfanninger ha mostrato ad esempio alcune delle sue brillanti creazioni. Come quel bacio tra Stato e mafia che ha fatto il giro del web è ha permesso di portare l'attenzione pubblica sul processo denominato Gotha di cui nessuno parlava. Un processo che vedeva tra gli indagati il senatore Antonio Caridi che, che secondo numerosi accertamenti, è stato uno degli "angeli custodi" della latitanza del boss Paolo Rosario De Stefano. Pfenninger ha ritratto il boss e il senatore in un bacio che, naturalmente, non è mai avvenuto concretamente – e che quindi è un fake -  ma la cui rappresentazione è diventata virale facendo uscire dal silenzio mediatico italiano il processo Gotha.  Nulla più reale, quindi, di una fake news. 

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