Rivoluzione digitale: Il nuovo precariato online
Internet e i suoi portali alla moda reinventano il mondo del lavoro, e la creazione di valore, e avanzano verso una “macchina degli impieghi”. Il risultato: un nuovo precariato dei servizi, che non sa nemmeno più cosa significhi avere una vita privata. Eike Wenzel*
«Non siamo dei focus group o utenti finali o consumatori. Siamo esseri umani – e la no- stra influenza si sottrae al vostro potere. Prendetene atto», ecco cosa veniva proclamato nella visione di democrazia diretta dei pionieri di internet 1999 nel cosiddetto Cluetrain Manifesto (vedi glossario) per la nascente cultura Internet. Quanto ci siamo allontanati da questa idea originaria! Nel mondo del lavoro rischiamo sempre di più l’esatto opposto: pseudoindividualismo, pseudoautonomia, pseudosovranità. Ora risponde la rete: noi, i grandi portali internet, non siamo una struttura sovversiva decentrata, non siamo un mercato del lavoro personalizzante, ma un distributore di servizi a buon mercato. Prendetene atto!
Cultura postmoderna del servizio: fine della vita privata
Quando il primo manifesto Cluetrain si aggirava in rete, noi consumatori e utenti internet avevamo la speranza che sui mercati si potesse scambiare qualcosa di più che mere transazioni. Da quando sap- piamo come funziona il furto di dati in stile NSA, Amazon, Google e Facebook, constatiamo che succede l’esatto contrario: i dialoghi rappresentano dei mercati – di dati, media e pubblicitari, ricercati dai portali monopolisti. Gli iniziatori del primo manifesto Cluetrain rimangono ottimisti e nel gennaio del 2015 hanno presentato una seconda edizione, (vedi New Clues) in cui esigono con forza una protezione più ampia dei dati e una maggiore trasparenza internet. Un dato di fatto c’è: internet nei prossimi tempi non assurgerà a florido mercato del lavoro. Infatti se non stiamo attenti, in rete crescerà una cultura del servizio di schiavi postmoderni, che rinunciano alla propria vita privata per racimolare il pro- prio sostentamento nel presunto Mondo-Sharing sociale pre- stando 18 ore di lavoro al giorno in impieghi a due soldi.
Zero tempo libero, ma non serve una qualifica
C’è da dire però che il nostro futuro mondo del lavoro è toccato in maniera ancora più profonda da diverse tendenze attorno all’argomento “Sharing”. Negli Stati Uniti circola già il termine “uberizzazione del mondo del lavoro” (all’argomento ab- biamo dedicato un dossier tematico nell’edizione 12/2015). Con ciò s’intende la seguente cosa: Uber, in cui Google ha investito nel 2013 250 milioni di dollari, e AirBnB, che attraverso il loro Sharing-Business praticano una sorta di economia sommersa digitale, creano McJobs altamente precari. Queste aziende e ditte simili potrebbero compromettere il nostro mondo del lavoro nei prossimi anni: per raccattare due soldi, ognuno nel giro di poche ore può “inventarsi” tassista Uber, iscrivere il proprio appartamento a Air- BnB e incassare anche qui miseri compensi.
Il boss di Uber, Travis Kalanick, l’anno scorso alla Conferenza Digital Life Design di Monaco ha promesso la creazione di 50mila posti di lavoro. Non serve essere pignoli per capire al volo che quello che Kalanick promette, quanto a possibili posti di lavoro, si basa su una stima molto vaga e producendo solo McJobs. Una ricerca di Alan Krueger, docente alla Princeton University, induce a pensare che Uber negli USA abbia creato un piccolo miracolo lavorativo: alla fine del 2014 Uber impiegava complessivamente 160 000 conducenti, e di questi ben 40 000 si sono aggiunti soltanto nel mese di dicembre 2014, guadagnando in media qualcosa in più dei classici tassisti. Tuttavia la statistica non tiene conto del fatto che i tassisti Uber mettono a disposizione il proprio veicolo, inclusa l’assistenza e la manutenzione, che pagano di tasca propria.
Flessibilizzazione alla Uber
Ma qual è la cosa più grave in tutto questo? A me disturba meno l’atteggiamento provocatorio nei confronti della legislazione convenzionale che non la bugia esistenziale di una cultura io-SpA, New Economy, Share-Economy o in qualunque modo la si voglia chiamare. Girare 14 ore al giorno nella rotellina di una nuova economia Low-Budget-Service come Taskrabbit sottopagato non ha niente a che fare con l’imprendito- rialità autonoma e consapevole del proprio valore. L’uberizzazione del nostro mondo del lavoro produce salari bassissimi, nuove dipendenze e distrugge la qualità della vita. Uber da molto tempo si considera una piattaforma logistica, che fino al 2030 non trasporterà soltanto persone, ma che vorrebbe dominare il nostro stile di vita con “applicazioni” tipo e-commerce, conse- gna di cibo a domicilio e servizi di mobilità di ogni tipo. Quando fra dieci anni circoleranno davvero le macchine autoguidate, il mercato potrebbe essere dominato da Uber e non da Daimler o Google. E fino ad allora c’è anche da temere che Uber trasformerà importanti settori dell’economia in un paesaggio intercollegato di McJob, dove i posti di lavoro qualificati praticamente non avranno più nessun senso. E qui la flessibilità fa da esca. Ma questa ci era già stata promessa dall’era del computer e dal collegamento in rete del mondo del lavoro. E infatti è vero che noi abbiamo un urgente bisogno di flessibilità nel mondo del lavoro – ma a tutt’altro livello: il 93 per cento degli impieghi flessibili in Germania vengono svolti da donne, e solo il 7 per cento dagli uomini. Ecco da dove dobbiamo comin- ciare nei prossimi anni.
Una volta la chiamavamo la nostra vita
Nel modello di creazione di valore propagato da Uber e altre aziende, non si tratta della trascendenza tra lavoro e tempo libero, ma della completa commercializzazione del tempo della vita. Anche questo in linea generale non sarebbe poi gravissimo se contemporaneamente non nascesse un trend socio-economico allettante soprattutto per gli strati sociali maggiormente a rischio povertà per mancanza di alternative.
Il “New York Times” nel 2014 lo mostrò bene con il ritratto di una giovane donna che vive nel mondo precario dei servizi di Uber. Le sue giornate lavorative comin- ciano alle 4 del mattino. Prima di svegliare i suoi tre bambini e preparare loro la colazione, con la sua macchina porta già due persone all’aeroporto. Per una corsa riceve 28 dollari, la benzina se la deve pagare da sola. La donna lavora come tassista per Uber, Lyft e Sidecar. Inoltre su richiesta dei clienti monta i mobili presso Taskrabbit e cura i giardini. Lei e il suo compagno dipendono da queste entrate extra. E si capisce chiaramente che queste forze lavoro vivono la quotidianità lavorativa come “guadagnatori minimi” e hanno giornate di lavoro che a prima vista sembrano il paradiso della deregula- tion: ognuno può guidare un taxi, ognuno è libero di scegliersi il proprio lavoro jolly mal retribuito. A uno sguardo più attento, tuttavia, questi lavori non offrono nessuna continuità e sicurezza. Questo nuovo e bel mondo dei servizi dell’economia App già da tempo si è tra- sformato in un precariato moderno. La privacy è a rischio estinzione, dal momento che la quotidianità di que- sti prestatori precari di servizi si compone di una serie di sharing-jobs, piccoli lavoretti su richiesta, mal pagati, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Uno scenario pessimista, ma non sarcastico e tanto meno irrealistico. Ora bisogna creare dei sistemi di preallarme sempre migliori che possano contrastare questa tra- sformazione ad alta velocità, che contraddistingue la digitalizzazione, con dei modelli di ade- guamento socialmente sostenibili.
* Dr. Eike Wenzel è alla testa, nonché fondatore, dell’istituto di ricerca ITZ GmbH di Heidelberg.