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Verso un’etica della solidarietà

 

Dal 1997, Paolo Ruspini si occupa di migrazioni internazionali con un approccio di studio comparativo. Da febbraio 2008 è «ricercatore senior» presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera italiana (USI) di Lugano e da gennaio 2016 è anche «honorary research fellow» presso il Dipartimento di scienze sociali dell’Università di Roehampton, Londra. È autore e curatore di svariati saggi e pubblicazioni in inglese e italiano (tra cui, per Palgrave-Macmillan, Migration in the New Europe: East-West Revisited, 2004; e per Springer, Prostitution and Human Trafficking. Focus on Clients, 2009; Migration and Transnationalism between Switzerland and Bulgaria, in uscita a luglio).

Professor Ruspini, quanto è importante la ponderazione dei numeri per capire l’entità del fenomeno migratorio?

La verifica e ponderazione dei dati statistici sulle migrazioni è importante per trasmettere informazioni corrette ai decisori politici e all’opinione pubblica. Un approccio scientificamente rilevante sulle migrazioni aiuta ad arginare messaggi dal carattere strumentale e dalle finalità populistiche e xenofobe, che di solito fanno leva più sulle percezioni che non la realtà dei processi in oggetto. Con una comunicazione corretta non si tratta di eludere i problemi innescati dalla gestione dei processi migratori, ma di enfatizzare anche le opportunità insite nelle migrazioni e contrastare così la problematizzazione a fini politici o elettorali. Un discorso scientificamente ponderato è insomma il miglior antidoto contro le paventate «invasioni» e le cosiddette «migrazioni di massa».

Ci sono i numeri. Ma anche le immagini. Una fra tutte: il corpicino senza vita di Aylan, che dall’agosto dello scorso anno è rimasto impresso nella memoria collettiva. E dopo?

Credo sia anzitutto necessaria un’educazione alle immagini oltre il fatalismo e il sensazionalismo. In una società globale che tutto consuma rapidamente nell’istante di un battito di ciglio, le immagini (insieme agli oggetti delle migrazioni) dovrebbero essere analizzate, catalogate, decostruite e correttamente archiviate ad uso della memoria presente e futura. In questo senso, vi sono progetti sulla memoria e le migrazioni come archivi online e musei delle culture o dell’immigrazione che cercano di sopperire alla politica dell’istante con la ricerca di riflessioni pluralistiche e storicamente strutturate. Queste iniziative progettuali e le citate realtà museali hanno, a mio modo di vedere, un ruolo estremamente importante nella trasmissione del sapere sulle migrazioni e nell’educazione alla diversità. Tutto questo però non basta ad evitare il ripetersi delle «stragi del mare», se la politica non assume anche un ruolo di guida, di ispirazione, di solidarismo e riscoperta degli spazi di discussione e dibattito. Le possibilità di arricchimento insite nelle migrazioni dovrebbero essere veicolate e avere il sopravvento sulle reazioni strumentali o meramente emotive.

Il fenomeno migratorio e il dramma migratorio: sono due facce della stessa medaglia?

Non bisogna pensare alle migrazioni solo in termini di «dramma» la cui comprensione sfugge all’intelletto umano. Come ho già avuto modo di sottolineare, le migrazioni portano con sé umanità, risorse e ricchezza di capitale di cui le nostre società occidentali caratterizzate da bassa fertilità e avanzato invecchiamento hanno estremamente bisogno per la loro sopravvivenza e rinnovamento. Le società plurali sono decisamente più ricche e competitive in termini di capitale umano in virtù della loro mescolanza. Ed è proprio dal capitale umano che dobbiamo ripartire per dare risposte alle nostre società: dalle seconde o terze generazioni e dalla loro saggezza e ruolo ponte tra il vecchio e il nuovo, tra il passato e il presente delle migrazioni. Il dialogo intergenerazione tra vecchi e nuovi migranti, tra chi migrante non lo è più se non sulla carta e la società dove vive, è fondamentale alla coesione sociale e a favorire risposte innovative in termini di prassi politiche. Le risposte praticabili sono insomma già presenti; si tratta solo di cercare di attivarle favorendo un’etica della responsabilità e della solidarietà.

Da un lato la solidarietà straordinaria: donne e uomini che, spenti i riflettori dei media, lavorano nel silenzio per soccorrere i migranti. D’altro lato gli Stati e le istituzioni, con le loro logiche. Due mondi paralleli?

È vero che quello del solidarismo internazionale e delle risposte istituzionali sono mondi che spesso non dialogano tra loro. Lo si è visto in tanti scenari migratori quanto sia difficile coordinare risposte adeguate tra il volontariato e le organizzazioni internazionali a vantaggio dei soggetti più fragili. A titolo di esempio sul tema, ricordo come, a fine agosto 2001, alla conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo di Durban nel Sud Africa post-apartheid, il forum delle organizzazioni non governative (ONG) aveva anticipato nel programma la conferenza ufficiale. Due modi di lavorare si scontravano tra loro su temi tanto delicati ed era difficile ricomporre il mosaico di intenti ideologici e solidaristici delle ONG con la successiva discussione letterale delle risoluzioni ufficiali e il linguaggio della politica. Credo però che lo sforzo di quelle organizzazioni internazionali e non governative che si incontrano e confrontano nei periodici forum di dialogo sulle migrazioni sia da sostenere con vigore. Le migrazioni sono ancora una materia recente con un costrutto normativo in divenire e alla difficile ricerca di un linguaggio comune. Dove è possibile, il linguaggio comune è comunque essenziale per poi fornire delle risposte urgenti e adeguate a beneficio dell’umanità in cammino nella sua interezza.

In un’intervista, il sociologo Zygmunt Bauman afferma: “Anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto, la solidarietà è l’unica strada per arginare futuri disastri”. Cosa ne pensa?

Vero! Recentemente Bauman ha parlato in modo lungimirante di «umanità in crisi» e della riscoperta di una diffusa solidarietà come antidoto a questa crisi. Non posso che condividere. Mi turba il pensiero che proprio i governi di quei Paesi europei che avevano con tanto ardore abbattuto i muri post-1989 sono adesso i primi a volerli ergere ancora per contenere flussi di persone in fuga dalla guerra o in cerca di migliori occasioni di vita. Non è quella dei muri la risposta da dare per arginare le paure dell’opinione pubblica e guadagnarne il consenso elettorale. I muri generano, infatti, solo nuove paure e non arrestano di certo chi si è messo in cammino. Sostengono invece un’industria di trafficanti e della sicurezza a scapito delle risorse da evolvere alle buone prassi di accoglienza e integrazione. Nella giornata del rifugiato, se solo ci fermassimo un minuto a riflettere cercando di abbandonare per un attimo le nostre «certezze» e calandoci nei panni dell’umanità in cammino ritratta da quelle immagini da cui sono partite le nostre riflessioni, forse faremmo un primo esile passo in avanti nel tentativo di comprensione. Dovremmo cercare di comprendere che quanto vediamo, avviene in realtà tutti i giorni nel nostro cortile di casa e che non possiamo chiamarci fuori se abbiamo a cuore la cura e il benessere della nostra casa comune.

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